Fuckup Night Vol. XIX, il pesciolino rosso e la consapevolezza

Caro Diario, come sai la parola #consapevolezza accompagna da sempre la mia idea di #lavorobenfatto, ancora settimana scorsa ne ho parlato a Grosseto e a Napoli, ma non ti nascondo che sono ornato a ripensarci su da quando ho deciso di partecipare a Fuckup Vol. XIX, a Impact Hub Firenze, con Internet Consciousness Day.

Perché sì amico Diario, la giornata della consapevolezza era una gran bella possibilità ed è stata un gran bel fallimento, per molte ragioni e da molti punti di vista, a partire dal numero di sostenitori, 687, ma di questo parleremo la sera del 13 Giugno perciò non mancare.

Quello che volevo dirti adesso è che se 5 anni fa l’uso consapevole delle tecnologie
era una necessità adesso è diventata un’urgenza, perché in un mondo in cui tra pochi anni tutte le macchine saranno in vario modo fornite di intelligenza artificiale mi pare difficile immaginare un grande futuro per esseri come noi, umani, che hanno una soglia di attenzione, una capacità di concentrarsi su una singola cosa, di 8 secondi, inferiore a quella di un pesciolino rosso.

Come dici caro Diario? No, sei fuori strada, la colpa non è della tecnologia, la colpa è di noi umani. E meno che mai si tratta di fermare l’innovazione tecnologica, non si può, non si è mai potuto, hai voglia a fare il tifo per il bufalo la locomotiva non la puoi fermare. No, il punto è semplicemente, inesorabilmente, il rapporto tra l’uomo e la macchina. Un rapporto che al tempo dell’intelligenza artificiale, dell’internet delle cose, degli algoritmi e della blockchain richiede da parte dal versante umano un livello di consapevolezza, una capacità di pensare e di fare, senza precedenti.

Consapevolezza e responsabilità, pensare e fare che sono evidentemente incompatibili con la soglia di attenzione di 8 secondi, con la velocità a prescindire, con la mancanza di profondità e di responsabilità.

Matteo Bellegoni nel suo bellissimo post di qualche giorno fa ha scritto cose she condivido appieno su AmazonGo e sul suo impatto sociale, se ancora non lo hai fatto ti invito a leggerlo, io aggiungo solo una domanda, quanto tempo ci vorrà prima che diventeremo così tecnologici e veloci che non solo compreremo con la app nel supermercato senza dipendenti e senza cassa ma compreremo con la app anche quello che il signor Amazon decide che ci piace?

Perché si amico mio, non si può resistere a Uber per sempre, e non si può neanche resistere al taxi di Uber che si guida da solo, è questione di tempo ma ci si arriva, il punto è che il taxi di Uber che si guida da solo ci deve portare dove vogliamo noi e non dove vuole lui, e l’altro punto è che dobbiamo pensare in che modo quelli che prima portavano i taxi e lavoravano nei supermercati – insieme a tutti quelli che saranno sempre più tanti che avranno tempo liberato dall’uso di macchine sempre più intelligenti – dopo possano continuare a dare senso e significato alle loro vite anche attraverso il lavoro.

Pensare e fare. Fare è pensare, e come sai l’accento sulla e non è un refuso.
Un pensare e un fare che non può essere lasciato in mano ai signori degli algoritmi o alle 20 persone più rcche dl mondo. Un pensare e un fare che implica la riorganizzazione delle nostre vite, delle nostre città, delle nostre relazioni, cose che dobbiamo cominciare a pensare da adesso, perché altrimenti facciamo la fine di Matrix, che non è che cambia molto se sopra a tutto ci sta il Dio delle macchine o il Dio dell’algoritmo.

Bisogna pensare e fare, ridefinire le regole del gioco, non so se le leggi della robotica bastano più, ma comunque bisogna a mio avviso ragionarci su, e farlo in manira semplice, diffusa, accessbile a molti se non a tutti, e l’uso consapevole delle ecnologie, tutte le tecnologie, m sembra un utile punto di partenza.

Ecco, io dopo il 13 Giugno a Firenze conto di tornare, però nel frattempo ne vorrei ragionare con te e con chi ci legge.

A proposito di Firenze, prima che lo leggi sul web meglio ch te lo dico io che insieme alla storia principale, quella che la sera vedrà come protagoniste/i Laura De Benedetto, Sara Gambarelli, Piero Capodieci and me, ci saranno due altre belle storie, la prima – dalle 14.30 alle 17.30 – è il workshop “Il lavoro ben fatto narrato con Lego Serious Play” condotto dalla facilitatrice certificata Daniela Chiru in cui sarà raccontato il lavoro e le leve motivazionali per migliorare le performance, la seconda – dalle 18.00 alle 19.00 – è la presentazione di Novelle Artigiane, insieme a Pietro Fruzzetti. Alla prossima.

1 commento su “Fuckup Night Vol. XIX, il pesciolino rosso e la consapevolezza”

  1. Questa storia del pesciolino rosso e della nostra consapevolezza mi frulla in testa da tempo. Ma come spesso accade quando si tratta di fare autocritica, ci viene da scappare o da spegnere le orecchie. Ci viene soprattutto da non parlarne perché in fondo le nostre pratiche comuni sono, appunto, così comuni da non considerarle nemmeno sbagliate. In effetti non si tratta di errore ma di pigrizia, la pigrizia che ci spinge a non sapere, a categorizzare, a ignorare o a spingerci verso il minimo delle nostre possibilità perché è faticoso andare oltre e scavare. Mi ci metto io stessa nella scia: la velocità con cui leggo contenuti su uno schermo e con cui scrivo testi con la tastiera mi ha disabituato in molti casi alla lettura su carta e alla scrittura con penna. Mi ha disabituato alla lentezza e all’approfondimento. 

    Mi ritengo quindi molto al di sotto delle mie possibilità e di quello che potrei e che dovrei riuscire a fare. 

    E penso al passato. 

    Michelangelo Buonarroti ha impiegato 4 anni per affrescare la volta della Cappella Sistina. Posto che i grandi geni e i grandi artisti nascono raramente e che non possiamo essere tutti come Michelangelo, mi metto ad osservare in adulazione la volta da lui affrescata e mi chiedo: noi come impiegheremmo 4 anni di vita e, in generale, come utilizziamo il tempo che abbiamo? In questo cosiddetto “mondo connesso” che spesso ci divide, nei casi limite impieghiamo il nostro tempo a controllare quanti like abbiamo ricevuto per i nostri contenuti e chi ha visto le nostre storie sui social (divenute così istantanee e di moda). In altri casi limite viaggiamo ma passiamo il nostro tempo a postare immagini approfondite della vacanza sui social in tempo reale e ad ogni ora, con il rischio poi di non soffermarci a gustare i luoghi ma di vederli attraverso un obbiettivo per modificarne colore, saturazione e luminosità. Inventando un hashtag accattivante. 

    Se ci formiamo o seguiamo un incontro di approfondimento su un tema che ci interessa per svago o per lavoro, postiamo i nostri selfie e le foto di slide e oratori ma non sempre dopo doniamo agli altri quello che abbiamo imparato. Cioè facciamo le cose per sembrare in un modo, non sempre facciamo per allargare gli orizzonti e divulgare agli altri le nostre emozioni e le conoscenze che abbiamo. Facciamo le cose per dire di esserci, per dire di esistere. Dimentichiamo a volte, però, che la nostra esistenza è resa grande quando doniamo qualcosa che duri, qualcosa che arrivi agli altri e li meravigli: come ha fatto Michelangelo con noi. 

    Cosa si dirà della nostra epoca un giorno lontano? Come stiamo utilizzando i grandi prodigi che la scienza e la tecnologia ci hanno concesso di scoprire? 

    Io sostengo che siamo dei pesciolini rossi che vagano in un mare di possibilità senza sapere come usarle, e mi ci metto ovviamente io stessa con molta autocritica perché fare critica sugli altri non ha senso ed è sempre controproducente. 

    Da lì in poi cosa si fa quindi? 

    Ecco, la soluzione al momento la vedo molto lontana ed è adesso più piccola della consapevolezza. La consapevolezza invece deve essere il nostro “must” ma anche il nostro perché: è da lì che si può cominciare a mettere in atto un cambio di pratiche comuni, ammesso che ci interessi davvero parlare di comunità. È dalla consapevolezza critica che ciascun individuo può chiedersi davvero quali sono i propri bisogni reali e indotti. Da lì il singolo può cominciare a chiedersi se oggi funziona di più ed è più giusta la logica del sembrare o dell’essere, del fare o del dire e basta. Il singolo può chiedersi se e cosa vuole lasciare dopo, cosa vuole sembrare, cosa vuole imparare. 

    Vedo noi stessi nel mondo affannati come tanti manutentori della nostra persona e della nostra immagine sociale. Le nuove tecnologie in questo ci offrono la possibilità di essere al centro delle vite degli altri con un semplice dispositivo mobile. A molti questo basta ed è il massimo che si possa desiderare, essere al centro con le nostre piccole esperienze è una soddisfazione che “basta il prezzo del biglietto”. Peccato però che chi ci osserva non paghi il biglietto per osservarci e invece per guardare la Cappella Sistina paghiamo eccome, e per fortuna aggiungo. 

    Non è questione di monetizzare, perché paghiamo pure tante altre cose che non valgono il prezzo del biglietto. 

    Il senso di tutto questo panegirico è il valore che diamo alle cose e alla vita. Il valore che diamo alla conoscenza e al sapere. Il valore che diamo alla possibilità di essere padroni del nostro mondo o anche solo di noi stessi: a partire dalla politica, dalla cultura, dalla società e dalle persone. 

    Tutto questo ci interessa davvero? O ci nascondiamo dietro al fatto che siamo solo piccoli puntini insignificanti rispetto all’immensità delle galassie. 

    Noi ce l’abbiamo un senso, e non è molto diverso dal senso che aveva Michelangelo Buonarroti, però preferiamo seppellirlo. 

    Michelangelo, per affrescare la volta, si stendeva e dipingeva fino a farsi colare i colori sugli occhi. Accettava la possibilità di diventare cieco pur di portare a termine la sua missione, pur di mostrare ai nostri occhi la bellezza. 

    Lui era un genio perché non aveva internet? 

    No, era un genio perché si serviva dei suoi strumenti per creare una meraviglia che ancora oggi mozza il fiato e ci lascia lì sotto a guardare come piccoli puntini, fermi con il naso all’insù e con il cuore colmo di tristezza perché è vietato farsi un selfie con la volta affrescata a fare da sfondo al nostro faccione. 

    Esserci (nel senso di affermazione della nostra presenza) o essere? Questo è il nostro problema. 

    Amleto docet. 

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